I taccuini di Tarrou – 426 – Dostoevskij

Il valore artistico non basta a legare un lettore a un libro. Deve intervenire altro, qualcosa di più intimo e profondo, legato alla natura del lettore, al suo modo di essere e di vedere le cose, di intendere e di vivere l’esistenza e la vita. La relazione che unisce un lettore a un libro ha la stessa profondità, la stessa totalità e fisicità di un legame amoroso. Io amo un libro come amo una donna. Come amo Lei.

Nel mio caso, i libri ai quali mi sento più legato sono quelli scritti con il sangue, la cui creazione è per l’autore una questione di vita e di morte. Per Dostoevskij tutti i libri sono una questione di vita e di morte, letteralmente, e anche per questo egli è lo scrittore che amo di più in assoluto. In ogni singolo libro Dostoevskij mette in gioco se stesso e la propria vita, e non solo la propria, ma anche quella dei suoi cari, della moglie, dei figli. Dostoevskij scrive come se dovesse morire da un momento all’altro, come se ogni suo libro fosse l’ultimo e dunque come se dovesse sforzarsi di esprimere, prima di scomparire, tutto se stesso e il proprio pensiero, affinché nulla resti irrisolto e incompiuto. Dostoevskij si riversa nei suoi testi come un fiume in piena, inarrestabile, travolgente, incontenibile, e questo aspetto si trasmette ai suoi personaggi, che si dibattono per esprimere se stessi, per affermare la propria esistenza e le proprie convinzioni prima che sia troppo tardi. Dostoevskij non si compiace mai di se stesso e della scrittura, come invece accade alla maggior parte degli autori, per i quali spesso la creazione letteraria sfocia nella vanità. In Dostoevskij non c’è nulla di vano; ogni singola parola è necessaria, è un’esigenza dell’essere che non solo vuole vivere, ma vuole esistere, vuole rivendicare e affermare la propria incontenibile esistenza manifestandola in ogni singolo gesto della sua vita. Del resto Dostoevskij, che la vita l’ha perduta e ritrovata più d’una volta, quasi al ritmo degli attacchi epilettici, sa meglio di chiunque altro quanto sia elevato il rischio di scomparire senza avere neanche il tempo di rendersene conto.

L’ultima fotografia di Dostoevskij, scattata da Panov nel 1880, a Mosca, sei mesi prima della morte

Per Dostoevskij la scrittura è la vita stessa, è la carne, è il sangue, è l’aria e i polmoni. È in funzione di ciò che avrebbe scritto dopo essere tornato in libertà, che Dostoevskij vive i quattro anni di lavori forzati. Qualunque scrittore, in fondo, potrebbe vivere senza scrivere – Dostoevskij no. Ogni suo libro è un attestato d’esistenza.

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